Nel panorama del cinema contemporaneo, poche opere riescono a intrecciare estetica e spiritualità con la stessa intensità di Parthenope, l’ultima fatica di Paolo Sorrentino. Questo film si presenta non solo come un omaggio visivo alla bellezza e un tributo a Napoli, ma come una meditazione filosofica sull’invisibile che si cela dietro il visibile, su quel confine impercettibile che separa l’ordinario dal trascendente. In Parthenope, la bellezza diviene un linguaggio del sacro, una “teofania” che trasfigura Napoli in un luogo al contempo reale e archetipico, simbolico e universale. Come sosteneva Dostoevskij, “la bellezza salverà il mondo”; Sorrentino sembra tradurre questa idea sullo schermo, trasformando la città partenopea in un palcoscenico dove il divino si manifesta attraverso l’estetica.
Il film non si limita a rappresentare la bellezza come una questione puramente formale; al contrario, la innalza a “epifania”, un’apparizione del sacro che invade il quotidiano, evocando una visione quasi platonica del mondo. La bellezza, qui, non è solo armonia o proporzione, ma una rivelazione: ciò che accade quando il divino si svela nella trama dell’ordinario. Napoli, con la sua complessità e i suoi contrasti, diventa lo scenario ideale per questa esplorazione. È una città che, da sempre, vive in bilico tra il sacro esibito e la spiritualità nascosta, incarnando una dialettica tra paganesimo e cattolicesimo, tra l’immanente e il trascendente. Come affermava Pier Paolo Pasolini, Napoli è “l’ultima metropoli umana”, un luogo in cui convivono modernità e tradizione, caos e poesia.
Questa dualità, tuttavia, non è soltanto geografica o culturale. Parthenope sarebbe “napoletano” anche se fosse ambientato altrove, perché ciò che Sorrentino racconta è l’essenza antropologica della città: il conflitto, l’ambivalenza, l’intreccio tra ciò che appare e ciò che rimane nascosto, tra il tangibile e l’ineffabile. Napoli diventa così un simbolo più ampio, un’allegoria dell’umanità stessa, eternamente divisa tra il desiderio di abbracciare il visibile e la necessità di sondare l’invisibile. Come sosteneva Walter Benjamin, “la bellezza è lo shock che risveglia l’inconscio”, e Sorrentino sembra invitarci a cogliere questo shock prima che sfugga.
Non è un caso, allora, che Parthenope venga interpretato come un film sulla giovinezza; ma non nel senso tradizionale di un’ode alla vitalità e alla spensieratezza: la giovinezza diventa qui una metafora della capacità umana di percepire il divino senza filtri, di vivere la bellezza in modo puro e immediato. Un personaggio del film afferma: “La visione è separazione, si può vedere solo ciò che dista”. Questa frase, densa di significato, sottolinea come il divino e la bellezza si manifestino appieno solo quando li osserviamo a distanza, quando la nostra coscienza li ha ormai alterati. La crescita, così, diventa una sorta di perdita dell’innocenza: l’età adulta introduce una consapevolezza che finisce per inibire il rapporto diretto con il sacro e il bello. Come suggeriva Rainer Maria Rilke, “la bellezza è solo il primo grado del terribile”, qualcosa che riconosciamo davvero solo quando è ormai lontano.
Con Parthenope, Sorrentino non si limita a rappresentare Napoli o a indagare il tema della bellezza; costruisce una piccola filosofia dell’esistenza umana. Così come la “teofania”, evocata nel titolo, diventa una chiave interpretativa per comprendere il nostro rapporto con il mondo: una visione ritardata, che si manifesta pienamente solo quando ce ne siamo distanziati. Napoli, in questo senso, diventa il microcosmo di un’esperienza universale, un luogo dove si intrecciano i temi fondamentali della spiritualità occidentale: l’immanenza e la trascendenza, il visibile e l’invisibile, la bellezza e l’intelletto.
In definitiva, Parthenope non è solo un film su Napoli o sulla giovinezza, ma una profonda riflessione sulla nostra capacità di cogliere il sacro nella quotidianità. È un invito a riconoscere la bellezza prima che sfugga, a imparare a vedere ciò che si cela oltre il velo della realtà, quando forse è già troppo tardi. Sorrentino, attraverso il suo cinema, offre una lente poetica e filosofica per esplorare le pieghe del reale, trasformando Napoli in un’icona e il film in un dialogo intimo con il trascendente.
Michela Castelluccio