La guerra spesso inizia da pretesti che, sebbene a volte costruiti ad arte, danno il via a conflitti su larga scala. La Grecia antica, patria della civiltà e delle nostre radici culturali, non era affatto pacifica. Si pensi, ad esempio, alla guerra del Peloponneso, che durò dal 431 al 404 a.C., che vide contrapposte la Lega peloponnesiaca, guidata da Sparta, e la Lega delio-attica, capeggiata da Atene. Il conflitto nacque soprattutto dalla volontà ateniese, sostenuta da Pericle, di affermare la propria supremazia nella regione; quel desiderio di egemonia portò inevitabilmente a uno scontro con Sparta, la cui visione più conservatrice contrastava con l’aperta democrazia ateniese. La tensione culminò nel 431 a.C. quando Atene proibì alle navi di Megara, alleata spartana, di accedere ai porti della Lega di Delo, infliggendo un duro colpo economico alla città. In risposta, Sparta intervenne per difendere Megara, dando inizio alle ostilità. Oggi l’Occidente discende da quell’antica tradizione bellicista, ma dimostra puntualmente di non averne ereditato il modo di pensare. D’altronde, già il filosofo Martin Heidegger, nella sua opera “Che cosa significa pensare?”, sottolinea quanto sia difficile per noi comprendere il pensiero greco, una sfida che lui stesso considerava forse insuperabile. In un’intervista concessa a Der Spiegel nel 1966 e pubblicata dopo la sua morte nel 1976, Heidegger osservava amaramente che proprio quest’opera, tra tutte le sue pubblicazioni, era la meno letta, interpretando questo come un segno dei tempi.

Ciò significa che pensare in modo profondo sembra oggi più arduo che mai. E forse proprio per questo, dovremmo riflettere ancora di più sul significato di ogni guerra, soprattutto noi che siamo culturalmente eredi di quell’antica Grecia. La guerra del Peloponneso durò trent’anni e portò alla progressiva decadenza della civiltà greca, un punto di non ritorno per la sua grandezza. Eppure, l’umanità pare non aver imparato nulla: i cittadini comuni rimangono inermi di fronte al potere di chi guida i conflitti, e i governanti continuano a sostenere guerre finanziandole o partecipandovi, incapaci di trattenersi dal coinvolgimento.

Cicerone, il celebre oratore, politico e filosofo romano, ci ha lasciato l’idea che «Historia magistra vita»  (La storia è maestra di vita). Mentre per Michel Foucault è impensabile la storia come “maestra” neutrale, poiché essa è sempre interpretata e manipolata, plasmata dai discorsi di potere. Piuttosto che un insieme di lezioni da applicare al presente, la storia sarebbe una costruzione sociale che riflette gli interessi di chi la racconta. Dunque, in chiave sociologica, la storia potrebbe insegnare qualcosa solo se la si interpreta criticamente; di fatto vero è però che la nostra società è quella volontà di potenza atta perpetuare un modello che sembra non voler imparare dalla storia.

Michela Castelluccio