di Carmen Piccirillo

Giuseppe Aletti, di origini calabresi, è considerato un punto di riferimento per la poesia in Italia: è poeta, critico letterario, editore, docente di scrittura. Ha ideato numerose iniziative di respiro internazionale, tra cui: il Premio internazionale di Poesia Inedita “Il Federiciano- Il Paese della Poesia” (un vero e proprio regalo alla “sua” Rocca Imperiale, in Calabria) dove vengono immortalati i componimenti dei vincitori su stele di ceramica maiolicata, adagiate sui muri delle case; il festival online “La panchina dei versi”; la rivista Orizzonti; il Premio Cet Scuola Autori di Mogol; il Premio Internazionale Salvatore Quasimodo Premio Nobel per la Letteratura. E’ a capo di una delle più grandi comunità letterarie italiane, la Aletti Editore, non una oscura sigla editoriale, ma un gruppo di validi professionisti e critici letterari. Inoltre, è il fondatore della Scuola di Scrittura Poetica Giuseppe Aletti. La sua silloge poetica, “I Decaduti”, è stata tradotta in arabo dalla Casa della Poesia del Marocco, e pubblicata in Egitto: ha avuto un ottimo risalto di stampa, con decine di articoli apparsi sui giornali di svariate nazioni della penisola araba. Il suo nuovo libro, intitolato “Da una feritoia osservo parole-365 rotte per il nuovo giorno”, ha riscosso un gran successo: è in classifica tra i bestseller di Amazon.

Lei è nato il 21 marzo, ricorrenza della Giornata mondiale della poesia. Un segno del destino?

E’ una felice coincidenza. Sono in buona compagnia perché il 21 marzo è nato Luigi Tenco, è nata Alda Merini, la più popolare poetessa della storia della letteratura italiana. La mia data di nascita l’ho sempre vista, in effetti, come un segno, sin da quando, negli anni 90, l’Unesco riconobbe, proprio nel giorno 21 marzo, la Giornata mondiale della poesia. Il mio percorso nasce da lontano: ho iniziato ad “armeggiare” con le parole sin dalla scuola elementare. Mi ricordo, in terza elementare, le mie letture di testi come Gianni Rodari, Renzo Pezzani e altri: una letteratura per l’infanzia molto alta in Italia. Ricordo di essere stato molto affascinato dalla possibilità di poter comunicare non soltanto con la parola orale, ma anche con la parola scritta. Andavo da mia madre con alcuni pensierini scritti, li definivo poesia: ero immensamente coinvolto dalla possibilità di trovare conforto attraverso l’utilizzo della parola, era qualcosa di particolare e di unico, qualcosa di personale che non potevo condividere con i miei compagni di classe. Posso dire, quindi, che la mia data di nascita sembrerebbe un profondo segno del destino, in base a ciò che si è verificato, poi, con la mia storia trentennale all’interno della cultura, e nella poesia in maniera più specifica.

La casa editrice Aletti è nata nel lontano 1994. Se dovesse pensare a un traguardo raggiunto, quello più importante tra i tanti, quale evidenzierebbe?

La casa editrice nacque come edizione della Rivista Orizzonti: nell’8 marzo del 1994 presentammo il numero zero della Rivista Orizzonti di cui ero l’editore e il direttore editoriale. La mia attività è nata un po’ prima, nel 1993, con la fondazione del Manifesto Artistico Letterario Habere Artem, che, in senso traslato, voleva dire “partorire arte”. Sin dalla giovane età, avevamo concepito la produzione letteraria come qualcosa di impegnativo, che dava un senso profondo al nostro essere “finiti” e “a scadenza”, dava un senso profondo al nostro arco vitale. Per quanto riguarda i traguardi raggiunti, faccio sempre fatica a evidenziarne alcuni perché ogni qualvolta mi sembra di aver raggiunto il massimo possibile, riesco ad alzare l’asticella e ad andare sempre oltre: è come se ci fosse un ponte invisibile che mi fa collegare tra loro territori e obiettivi, sempre differenti. Quando siamo partiti con la Rivista Orizzonti, ci sembrava un grande traguardo quello di poter avere delle librerie che ci ospitassero e svariati lettori che ci potessero seguire. A distanza di tre anni dalla sua nascita, la Rivista Orizzonti era la più seguita tra le riviste poetiche nel circuito delle librerie Feltrinelli. Abbiamo, poi, iniziato a mettere in campo iniziative dal vivo, molto seguite. Abbiamo portato la poesia nei luoghi più impensabili: a Roma al Classico Village, alla Casina delle poste, al Lungotevere Flaminio, presso “Il Locale” (un locale molto conosciuto per la musica romana, dal quale sono venuti fuori artisti come Nicolò Fabi, Daniele Silvestri, Max Gazzè, Alex Britti e tanti altri). Un altro progetto importante da segnalare è “Il Paese della Poesia”: nessuno avrebbe mai potuto pensare che, nell’utilizzare la poesia come arredo urbano, avremmo potuto avere successo. Io ne sono stato pienamente consapevole, ancor prima di ufficializzare l’iniziativa, infatti andai subito a registrare il marchio, ero sicuro che avremmo avuto tentativi di plagio: è infatti accaduto; il concorso “Il Federiciano” è il più importante concorso per testi inediti in Italia, l’unico che dà l’eternità, ha raggiunto quarantamila presenze, numeri difficilmente spiegabili. Il traguardo di cui sono più orgoglioso è la grande attenzione, partecipazione, da parte della mia comunità letteraria. Ogni giorno noi mandiamo una newsletter a oltre ventimila persone. Sono orgoglioso della mia attività di capo di questa grande comunità letteraria, e di formatore. Essere scelto dagli autori come mentore è qualcosa di immensamente emozionante.

Nel suo ricco team, da tempo, vi sono due intellettuali prestigiosi: Alessandro Quasimodo e Hafez Haidar. Come vive questa proficua collaborazione?

Haidar e Quasimodo sono diventati degli amici. Inizialmente è nato con loro un rapporto professionale, ma sono stati incontri nei quali ho sentito la straordinaria sensazione di conoscerli da una vita, si tratta di quegli eventi rari, che per fortuna capitano nella vita. Al di là degli aspetti professionali, io condivido con loro percorsi comuni: con Haidar ci sentiamo sempre telefonicamente, e ogni volta che abbiamo la possibilità di vederci diventa una festa. Quasimodo l’ho conosciuto un po’ prima di Haidar, ed è stato il primo a intuire, all’interno de “Il Federiciano”, che stava germogliando qualcosa di importantissimo: era venuto alla prima edizione estiva, e, lui che è un grande messaggero di poesia per l’Italia e per il mondo, rimase colpito dalla spiccata attenzione, dalla frequenza, dalle presenze delle persone. Dedicammo a lui due pomeriggi, ne rimase molto attratto.

Lei conduce, con costanza, i laboratori di scrittura poetica. A chi sono rivolti e con quale obiettivo?

Il primo laboratorio è stato messo in campo nel 2001, sono stato il primo a creare una scuola di scrittura poetica che prende il mio nome: Giuseppe Aletti. E’ un laboratorio di scrittura, periodico, che facciamo principalmente a Roma, ma anche in giro per l’Italia. Negli ultimi tempi, ci sono stati alcuni blocchi dovuti alla pandemia. I laboratori sono rivolti a quegli autori che vogliono avere maggiori possibilità espressive: come qualunque altra disciplina artistica o letteraria, vi è la possibilità di fare percorsi di consapevolezza. Tra un poeta consapevole e un poeta inconsapevole la differenza è soltanto una: il primo conosce qualcosa che l’altro ignora. Avere la possibilità di incontrare delle buone informazioni è importantissimo perché queste ci fanno differenziare dalla proposta linguistica degli altri autori, e ci fanno capire come indagare la parte più intima e vera di noi stessi, ci fanno capire che noi, come poeti, affidiamo ciò che siamo alla parola, ma nella maggior parte dei casi è proprio la parola che viene ignorata dalla maggior parte degli autori, che confondono la coscienza con la consapevolezza. Nel momento in cui abbiamo una ispirazione, scriviamo: questo è lo stato di coscienza, che viene confuso con la consapevolezza. La consapevolezza è la capacità di sapere come utilizzare la parola all’interno del contesto poetico, per rendere, in maniera efficace, ciò che siamo.

“In poesia la cura dei dettagli svela l’identità dell’autore e la sua indagine linguistica”. Questa una sua citazione tratta dal libro “Da una feritoia osservo parole”. Quanto è importante preservare la propria vera identità tramite la poesia?

Preservare la propria identità attraverso la scrittura poetica è prioritario, fondamentale. Un poeta, per preservare la propria autenticità, deve capire come indagarla, come frequentarla. Ognuno di noi ha una macroarea di riferimento, il proprio nucleo di verità. Bisogna sapere, quindi, come fare per portare tutto questo sulla pagina: non è un percorso immediato, né semplice, bisogna essere molto coraggiosi per intraprenderlo. La propria identità, per essere espressa sulla pagina, ha bisogno del coraggio di portare cose che non sono solamente in luce, ma anche in penombra, all’oscuro, in una zona buia che il poeta deve imparare a indagare. Quando comunichiamo sulla pagina cose che non avremmo il coraggio di dire a nessuno, creiamo maggiore empatia con il lettore che legge i nostri testi. I luoghi comuni, il sentito dire, i cliché, sono una forma di autocensura. I percorsi di consapevolezza sulla scrittura servono a farci comprendere chi siamo realmente, e ad avere meno pudore nel portare ciò che siamo all’interno della pagina. Philip Roth diceva che “i lettori non ci chiedono opere d’arte, i lettori ci chiedono aiuto”. Attraverso la lettura di un testo autentico di uno scrittore che ha vissuto un’esperienza simile alla nostra, è possibile trovare conforto, o risolvere problemi esistenziali comuni tra poeti e lettori.